
Giuseppe Faravelli (a destra) insieme a Arturo Degrada
Nacque a Broni, piccolo comune dell’Oltrepò pavese, il 29 maggio del 1896, in una famiglia della media borghesia che gli trasmise gli ideali di patria, libertà, giustizia quali principali e insostituibili punti di riferimento e orientamento.
Compì gli studi nel paese natale, poi a Voghera infine a Pavia, dove si iscrisse a Lettere. L’inizio della Grande Guerra interruppe però l’esperienza universitaria e lo portò sul fronte, tra i genieri, col grado di sottotenente. In territorio di guerra si comportò con onore, e durante la ritirata di Caporetto venne ferito, per cui meritò due medaglie.
Restituito nel ’18 alla vita civile, riprese gli studi universitari, ma in una facoltà nuova, quella di Legge. Il nuovo impegno coincise con l’adesione al Partito socialista attraverso un gruppo studentesco del quale facevano parte F. Chinaglia, G. Bulferetti, E. Pennati, R. Veratti, giovani destinati a primeggiare nei campi della politica e della cultura. Distinguendosi dai suoi compagni, che in parte avevano seguito la strada del comunismo, egli guardò con interesse al riformismo socialista, di cui Turati era il maggiore interprete.
Intelligenza, cultura, senso pratico fecero sì che venisse subito valorizzato con la nomina a segretario della Federazione socialista e della Camera Confederale del lavoro del pavese, direttore de “La Plebe”, consigliere comunale, infine componente della Giunta provinciale amministrativa di Pavia.
Conseguita la laurea in Legge con una tesi su Vincenzo Cuoco, vinse un concorso indetto dal comune di Milano. Si trasferì perciò nel capoluogo lombardo, che da allora divenne la sua seconda patria.
Sempre attivo sul piano politico, nell’ottobre del ’22 aderì al Partito Socialista Unitario con Turati, Matteotti, Treves, collaborò a “La Giustizia” e a “Battaglie sindacali” e fu vice direttore de “La Libertà”, il vivace quindicinale dei giovani socialisti unitari. Dopo l’uccisione di Matteotti si impegnò con crescente ardore nel partito e nel sindacato e fu tra gli organizzatori del congresso delle opposizioni che nel dicembre del ’24 riunì a Milano i rappresentanti delle forze superstiti dell’antifascismo.
Dopo il ’26 e l’entrata in vigore delle leggi eccezionali, nella sua qualità di dipendente del comune di Milano aiutò in vari modi gli antifascisti che cercavano di espatriare verso la Francia e la Svizzera,
Tentò anche di dare vita a un gruppo clandestino, ma presto venne scoperto, denunziato e sottoposto a un attento controllo. Faravelli non desistette dall’azione intrapresa. Operando sempre più strettamente a fianco di elementi di “Giustizia e Libertà”, tenne contatti con antifascisti che ritenevano ancora possibile la caduta del fascismo.
In contrasto però con simili considerazioni e speranze sul destino del fascismo, il regime mussoliniano si consolidava. Faravelli ne prese atto, e decise di espatriare. Si rifugiò prima in Svizzera, poi in Francia, nuovamente in Svizzera, e a Lugano fece parte del comitato nel quale elementi socialisti peravano assieme agli azionisti di GL. coordinando l’azione clandestina antifascista da svolgere in Italia.
Continuava intanto a collaborare a vari fogli dell’emigrazione, quali “Nuovo Avanti!”, “La Libertà”, “L’Avvenire dei lavoratori”, “Libera stampa”.
L’avvento della politica di unità d’azione tra i vari gruppi dell’antifascismo lo vide assolutamente avverso alla adesione dei comunisti. Questa posizione, trasferita nel seno del Partito socialista, motivò duri scontri con la corrente unitaria che allora faceva capo a Nenni e sosteneva con forza il patto di unità d’azione tra il PSI e il PCd’I . Fermo nelle sue idee, che lo portavano a rilevare e denunziare il carattere antidemocratico del comunismo, Faravelli continuò a sostenere “la collaborazione nella autonomia dei socialisti”.
Tornato nella capitale francese, fu attivissimo nella propaganda antifascista, collaborando a Radio Parigi ma tenendo sempre viva la polemica contro i sostenitori della politica di collaborazione coi comunisti.
Il Patto Ribbentrop – Molotov, sottoscritto nell’agosto del ’39, gli fornì l’occasione per chiedere la rottura dell’alleanza, ma l’inizio della seconda Guerra mondiale, la nascita della coalizione antifascista comprendente i paesi dell’Occidente e l’URSS, l’invasione della Francia da parte delle truppe germaniche modificarono il quadro al quale si riferiva. Faravelli venne rinchiuso nel campo di concentramento di Vernet e rischiò la consegna alla polizia fascista. Rimesso in libertà e poi nuovamente arrestato, venne consegnato ai fascisti e condannato a 30 anni di reclusione per l’intensa attività fino allora svolta. Nel settembre del ’44 riuscì però ad evadere e a rifugiarsi in Svizzera. Pochi mesi dopo, sconfitti i nazifascisti, rientrò in Italia e riprese l’attività politica per conto del Partito socialista. In perfetta sintonia con Ugo Guido Mondolfo e altri lavorò per la rinascita di “Critica sociale”, la gloriosa rivista di Turati, che pochi mesi dopo potè tornare a svolgere la sua funzione di portavoce del riformismo socialista.
Chiamato a far parte della direzione del partito, non discostandosi dalle sue vecchie idee si oppose alla prosecuzione della politica di unità coi comunisti e al rinnovato “patto di unità d’azione” tra i due partiti.
La scissione e la nascita del PSLI sulle posizioni da lui auspicate lo videro in primo piano, assieme ai vecchi compagni di corrente e ai giovani di “Iniziativa socialista”, quale componente della segreteria e condirettore, poi direttore, de “L’Umanità” . La posizione “atlantista” sempre più visibilmente impressa al partito da Saragat e la proposta di adesione al Patto Atlantico lo spinsero però al dissenso, e con non pochi dei vecchi compagni di lotta aderì al PSU, unendosi a Romita, poi al PSDI nel quale si realizzava l’unificazione dei vecchi tronconi socialdemocratici.
Fu consigliere comunale e assessore a Milano, e lavorò con passione per “Critica sociale”, specie dopo la morte di Mondolfo che l’aveva diretta dalla rinascita. Sempre convinto della bontà delle sue idee, lavorò ancora per l’unificazione di tutti i socialisti su posizioni riformiste e per questo ritenne di dover aderire al MUIS con Zagari, Matteotti e Vigorelli, assieme ai quali nel ’59 rientrò nel PSI, che intanto aveva intrapreso il suo cammino sulla strada della autonomia socialista.
Sostenne a questo punto la fusione tra il PSI e il PSDI, ma rimase nel primo quando si verificò la nuova rottura e i socialdemocratici operarono una nuova scissione ricostituendo il loro partito. Il 15 giugno del 1974 un enfisema polmonare pose fine alla sua vita travagliata e tuttavia sempre animata da una fede incrollabile nel socialismo e nella democrazia.
Giuseppe Miccichè